Il tanto celebrato libro di Vincenzo
Filosa non mi è sembrato poi quel gran capolavoro, il “miglior fumetto
dell’anno” o “del decennio” come alcuni hanno decretato; tante recensioni
osannanti mi hanno fanno sentire il bisogno di smitizzare quest’opera (non
recensendola, poiché non mi reputo in grado di farlo, ma semplicemente
commentandola). Ad una prima lettura appare una narrazione circolare, che
termina laddove era iniziata dopo averci descritto la situazione personale e
familiare del protagonista. Dal punto di vista tecnico, l’inizio è promettente,
con una serie di tavole particolari: spezzettate in molte vignette sempre più piccole,
dove personaggi casuali pronunciano parole casuali e ci proiettano nella mente
del personaggio. Ma gli effetti speciali finiscono qui e per il resto la
sceneggiatura procede regolare, accademica. Da un certo punto in poi (a mio
avviso da pagina 64) il meccanismo narrativo comincia ad apparire un po'
confuso: forse sfuggono alcuni particolari che chiarirebbero, ma non si capisce
più se la narrazione sta procedendo su una o due linee temporali. Questo è un
po' disorientante, anche se in fin dei conti, non c'è una vera e propria storia
ma la descrizione di una dipendenza da sostanze stupefacenti; non un inizio,
uno svolgimento ed una fine, ma un cerchio chiuso. Ci sono diversi libri a
fumetti per i quali il giudizio cambia notevolmente se espresso “durante” la
lettura o “dopo”; libri che alla fine possiamo dirci contenti di aver letto ma
che sul momento ci avevano piuttosto infastidito. Complice lo stile di disegno,
che per certi versi si rifà ai manga e che non è nelle mie corde, ho terminato
il libro senza alcun entusiasmo ed ho pensato che fosse uno dei più
sopravvalutati degli ultimi anni. Riflettendoci a freddo, riconosco il valore
di ciò che Filosa ha voluto raccontare e posso apprezzarlo, ma i mezzi usati
per farlo non mi convincono.
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